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giovedì 28 giugno 2012
Kwame Anthony Appiah nel suo saggio apparso sulla rivista Reset
dal titolo Occidente, monolite inesistente,
sostiene che quest'ultimo non può essere motivo di solidarietà in opposizione
al mondo islamico in quanto l'Occidente non si regge su di una cultura organicistica.
Infatti l'accettazione dell'altro non può essere distillata attraverso
l'identificarsi con la purezza della cultura occidentale intesa come elemento
omnicomprensivo di una data identità individuale, al contrario la linea di
demarcazione relazionale è interna all'individuo e si regge sull'accettare o
meno l’altro a prescindere da qualsiasi elemento formativo di stampo
organicistico.
La tradizione culturale occidentale non è quindi un monolite
unico e senza tempo che affonda le sue radici in un unico e circoscrivibile perimetro
cognitivo. Ma è anch’essa frutto dei mutamenti della storia, tanto che la sua
essenza la si può riconoscere solo basandola su di una costruzione narrativa.
Anthony Appiah è uno dei più influenti filosofi contemporanei. Le sue ricerche sono
volte ad argomentare la sostenibilità di una società planetaria nella quale le
differenze non sono calpestate ma esaltate da una visione comune dell’uomo.
Ma
perché ho citato il filosofo anglo-ghanese? Perché stamattina ho letto
un'intervista sul Corriere della Sera di Ṭāriq Saʿīd Ramaḍān. Il controverso intellettuale,
alla domanda se nel Nord Africa e in Medio Oriente alle dittature possa
subentrare l'integralismo islamico, ha così risposto:
Intanto, i nuovi vertici egiziani hanno assicurato che rispetteranno gli accordi di pace con Israele. Poi, l'Occidente deve smetterla di osservare il Medio Oriente attraverso le lenti del proprio interesse. La condizione delle donne non era importante sotto Mubarak, sotto Ben Alì? Trovo curioso questo allarme dell'Occidente a geometria variabile. In Arabia Saudita le donne non possono guidare, ma siccome Riad protegge gli interessi americani nessuno se ne preoccupa. Una forza di Islam politico in Medio Oriente è presente, e bisogna farci i conti
L'Occidente non è un monolite neanche nelle relazioni internazionali. Ramadan, che è nipote di Hasan-al-Banna fondatore dei Fratelli Musulmani, coglie nel segno quando mette a nudo le paura di chi, in Occidente, teme un potere islamico al Cairo senza però mai mettere in discussione le dittature del Golfo. In questa contraddizione c'è tutto il fallimento delle politiche estere mediorientali di Stati Uniti ed Europa negli ultimi venti anni.
Il metodo dei due pesi e due
misure ha incoraggiato l'interventismo umanitario in Libia e il permissivismo
bagnato di realpolitik – e sangue – del
caso siriano. Per non parlare della questione palestinese di cui non parla
ormai più nessuno, nonostante le morti continuino nella Striscia di Gaza. Condivido
le tesi di Appiah.
La demarcazione tra individui non passa attraverso
l'appartenere ad una data civiltà, ma essa trae origine da una scelta
soggettiva di includere o no le differenze culturali nella propria identità
storica personale e collettiva. Nel caso della Primavera Araba l'Occidente ha
usato come unico collante possibile per una collegiale politica estera
l'interesse geopolitico, senza curarsi delle conseguenze future di questa pratica.
Sovente sono proprio questi aspetti a segnare solchi profondi fra nazioni,
popoli e individui che in futuro possono poi contribuire alla nascita di drammatici
fenomeni migratori, alla creazione di organizzazioni politiche xenofobe e
razziste o a sentimenti di emarginazione etnica e comunitaria nelle metropoli
d'Occidente. Tutte queste segmentazioni possono agire negativamente sul
comportamento relazionale dando origine alla paura dell’altro, e mettendo in
secondo piano una possibile visione comune dell’uomo.
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