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giovedì 14 giugno 2012

Nel suo ultimo libro Tony Judt, intelletuale americano scomparso nel 2010, afferma che il 1989 ha sancito la fine della sinistra:

Con il crollo del socialismo reale si è sfilacciata tutta la matassa di dottrine che aveva tenuto insieme la sinistra per più di un secolo. La scomparsa assoluta e improvvisa della variante moscovita, per quanto perversa potesse essere, non poteva non avere un impatto devastante su qualunque partito o movimento che si definisse socialdemocratico

A questa riflessione va aggiunto un dato: la crescita della diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza all'interno delle società in cui viviamo.
Oggi non siamo più cittadini ma consumatori. L'apologetica delle virtù del settore privato e la conseguente deregolamentazione del mercato hanno dato come risultato: 1) la fine del welfare state inteso come una politica integrante rispetto alle forme di esclusione economica e sociale 2) la nascita di individui che si sentono superflui rispetto alla vita economica della società e che spesso vivono come gated person.

L'incertezza individuale regna sovrana. Questo fattore esistenziale favorisce l'avvento di una destra populista che intorno alla narrazione sull'insicurezza costruisce il suo consenso elettorale. L'ordine di mercato da cui deriva il sistema economico trans-nazionale ha imposto una restrizione della capacità dello stato di poter tenere coesa la società e questo ha avuto ripercussioni anche sul linguaggio politico della sinistra.

Negli ultimi quindici anni, all’interno delle sinistra socialdemocratica post 89, la parola uguaglianza è passata di moda. Essa è stata sostituita da concetti come efficienza, e da una retorica che professa un liberismo dal volto umano, dimenticando le terribili disuguaglianze che causa un mercato libero di agire indisturbato all’interno dei rapporti sociali. Da questo scenario non è esente la Sardegna e ad oggi, la più grande sfida politica per l'Isola, è quella di recuperare un progetto collettivo che dia ai sardi gli strumenti per navigare nel mare della globalizzazione creando una società meno "insicura".

Per far ciò le culture politiche autonomiste non sembrano attrezzate. Massimo Daddea in suo articolo afferma:

Incominciamo a prendere atto che l’Autonomia speciale è finita. Dobbiamo con coraggio inoltrarci in territori finora sconosciuti, battere strade nuove, sfatare, specie per la sinistra, tabù ritenuti intoccabili, come ad esempio l’opzione indipendentista. Un moderno concetto d’indipendenza è qualcosa di molto lontano da quello ottocentesco e risorgimentale. In un mondo globalizzato, indipendenza non vuol dire “separatismo” e neanche “separatezza” né tanto meno “secessione”. Indipendenza non vuol dire cingere la Sardegna con il filo spinato e neanche erigere una palizzata intorno alle nostre coste. Indipendenza vuol dire costruire, consensualmente, un rapporto paritario, tra eguali, senza vincoli gerarchici, con lo Stato Italiano. Un rapporto paritario tra eguali che hanno condiviso oltre 60 anni di democrazia repubblicana, che hanno convissuto con lealtà sotto la stessa Carta Costituzionale.

Rimane il dubbio se per Daddea indipendenza significhi la nascita di una Repubblica di Sardegna con un suo stato, una sua costituzione e una sua piena soggettività internazionale oppure se intenda una forma di Autonomia al cubo che dia all'Isola una capacità giuridica maggiore ma pur sempre agganciata al quadro istituzionale della Repubblica italiana.
Resta comunque interessante la riflessione sul possibile rapporto tra sinistra e indipendenza.

Se, come suggerito da Daddea, è tempo di andare «per territori finora sconosciuti», una riflessione sorge impellente: la sinistra in Sardegna può definirsi tale senza essere indipendentista? Credo di no, per tre ordini di motivi:
  1. La cultura autonomista rischia di alimentare il processo di disgregazione sociale in quanto rappresenta una dinamica accomodante e non una forza condizionante, ovvero il suo margine di azione non contempla la capacità di cambiare il destino dell'Isola;
  2. La Sardegna necessita di una sempre maggiore sovranità in quanto una Repubblica di Sardegna diventerebbe lo strumento mediatore con cui i sardi si rapporterebbero in modo diretto alla globalizzazione, governando e non subendo i processi di interdipendenza a livello di relazioni internazionali;
  3. L'indipendenza donerebbe la capacità di gestire i beni comuni della nazione sarda (sole, acqua, vento, patrimonio conoscitivo sardo), la possibilità di reperire risorse materiali per modulare politiche di coesione sociale, la forza di contrastare le diseguaglianze economiche e la progettualità utile ad aumentare la fiducia tra i cittadini e liberarne le energie migliori, senza la quale nessun progetto andrebbe a buon fine.
Abbiamo di fronte una grande sfida sociale e collettiva dentro la quale convogliare un processo emancipatore per tutte le persone che vorranno condividere il destino dell'Isola. D'altro canto mi chiedo con quali strumenti l'Autonomia pensa di poter mediare fra cittadini insicuri e senza potere e le grandi multinazionali o le organizzazioni internazionali? Un'Autonomia che non ha portato i frutti sperati nel quadro politico-istituzionale italiano, lo farà all'interno di un mondo sempre più globalizzato e interdipendente?

Al fine di evitare di diventare una forza conservatrice di uno status quo infelice per la nazione sada, il futuro della sinistra autonomista in Sardegna dipenderà sempre di più dal modo con cui essa farà i conti con le idee indipendentiste. La possibilità di poter creare una nuova dinamica elaborativa che colmi il buco della solitudine esistenziale in cui l'individuo post-moderno è piombato, trova nell'Isola un formidabile campo di sperimentazione per rifondare un nuovo paradigma esistenziale che porti ogni sardo ad essere felice. Indipendenza significa anche e soprattuto questo.

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