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mercoledì 11 luglio 2012

Morire di sete. Nel Mediterraneo. 54 persone sono morte disidratate mentre inseguivano il loro sogno di una vita migliore. Erano eritrei e somali. Venivano da terre in cui la guerra, la fame e l'Islam radicale la fanno da padroni. Sono partiti con un gommone dalla Libia, Repubblica islamica appena andata alle urne per eleggere la sua nuova Assemblea Nazionale. Questa terribile notizia è stata diffuda ieri dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). I processi democratici non fermano le migrazioni.

Diritto alla fuga, ovvero l'impulso alla libertà di poter cercare altrove condizioni di vita migliori di quelle del posto in cui si vive. Migrare, portando la propria soggettività in un altrove spesso mitizzato, è un comportamento che ha sempre caratterizzato la vita degli uomini. In ogni epoca e spazio. I migranti sono sicuramente figure paradigmatiche dell'epoca globale e post-moderna, ma non rappresentano un fenomeno riconducibile esclusivamente all'oggi.

L'uomo è da sempre anima migrante. Si può migrare per scappare da una guerra, per motivi economici o semplicemente per conoscere e vedere come è il mondo. A volte si emigra anche per amore. In tutti questi casi rimane sempre intatta la motivazione soggettiva del migrante il quale diventa, col suo muoversi, portatore di diritti universali. Rispetto a questo rompicapo della cittadinanza universale insita nel comportamento migratorio spesso i governi oggettivizzano il migrante dentro politiche di controllo e prevenzione che alimentano fobie e paure nel diverso.

Robert Gilpin afferma che la demografia e i flussi migratori sono i fattori che nel corso della storia dell'umanità hanno influenzato in maniera decisiva le relazioni internazionali: esodo è una parola biblica dalle venature catastrofiche. Lo stesso termine lo troviamo sovente sui media per descrivere gli scenari migratori della globalizzazione. La comunicazione gioca un ruolo fondamentale nella definizione della percezione del pericolo e il migrante diventa clandestino o criminale.

In generale si è cittadini di uno Stato in base ad una serie di norme giuridiche oggettive che definiscono diritti e doveri dell'individuo. L'accesso alla cittadinanza è regolato attraverso dispositivi di legge. Molti dimenticano però che parlare di cittadinanza è rilevante nella misura in cui significa parlare del soggetto all'interno della politica ed in particolare nella politica moderna.

Ridurre il concetto di cittadinanza alla sola matrice giuridica o peggio ancora allo ius sanguinis è solo un modo per mascherare la realtà delle cose, ovvero l'universalità spesso negata del diritto alla libertà di movimento che per molti essere umani diventa il diritto ad una possibile felicità.

Ecco perché la soggettività migrante pone a noi stessi interrogativi decisivi per ridefinire i rapporti tra gli individui, la società e le forme giuridiche che racchiudono queste relazioni. La cittadinanza multiculturale è entrata in crisi in molti paesi europei e il migrante è spesso l'oggetto di politiche discriminatorie. Si pensi al referendum sul divieto per la costruzione di nuovi minareti in Svizzera del 28 novembre 2010 vinto con il 57% dei voti a favore.

La cittadinanza però non è messa in crisi solo dai migranti ma anche dal venire meno dei sistemi di protezione sociale delle democrazie liberali. Questa mancanza ha strutturalmente abbandonato l'individuo solo di fronte all'ordine di mercato. La crisi finanziaria degli ultimi anni ha avuto conseguenze catastrofiche anche per quanto riguarda la capacità di godere dei diritti sociali.

A me sembra evidente che il concetto di cittadinanza sia oggi una "istituzione" in movimento che mette in crisi confini, sistemi normativi e forme di appartenenza individuale. Questo genera inevitabilmente conflitti in quanto dentro queste dinamiche l'identità individuale viene formandosi a partire da un'esposizione diretta dell'individuo al mondo. Il deserto sahariano e la London Stock Exchange non sono mai stati così vicini nel condividere la crisi della cittadinanza come in questa epoca di globalizzazione.

Questa crisi non la si potrà risolvere con politiche repressive o con forme di controllo sociale ossessive. Sui barconi che attraversano il Mediterraneo è entrata in crisi la nostra condizione di soggetti universali. Solo con questa consapevolezza troveremo la strada di un orizzonte condiviso e meno conflittuale con cui ridare slancio a politiche di inclusione. Morire di sete in mezzo al mare è un orrore inaccettabile. Morire per migrare lo stesso.

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